Pollock

Dopo il 1943, anno della creazione di “Mural”, diventa impossibile individuare forme distinte nelle pitture di Jackson Pollock, che porterà il gesto creativo al di là di ogni certezza interpretativa e ponendolo oltre la sfera personalistica nell’assenza di qualsiasi forma speculativa. Ciò che ne resta è una memoria corporea in uso a immagini simboliche della caotica sfera dell’inconscio che si agita come in un caos incandescente della “prima materia” pronta per ricreare un’interezza della personalità che forse non arriverà mai.

L’analisi con lo psicologo junghiano Joseph L. Henderson che risale a pochi anni prima, aveva prodotto immagini simboliche di cui si rendeva necessario decifrarne i contenuti, soprattutto per l’afflusso di fantasie che sono state oggetto di svariate interpretazioni. Lo stesso Pollock, sollecitato dalle teorie junghiane sugli archetipi, descriveva la sua opera attraverso concetti psicanalitici piuttosto che criteri estetici. La teoria degli archetipi di Jung eserciterà una forte influenza presso molti artisti dell’epoca per via delle immagini inconsce che sono comuni a tutta l’umanità e non solo alla singola individualità. Queste immagini mitiche sono indipendenti da razze e culture, talché offrirebbero agli artisti la possibilità di realizzare un’arte universale, un’idea questa che aveva già spinto molti di loro a rivolgersi alle culture primitive in genere.

Mark Rothko aveva dichiarato che l’arte arcaica e la mitologia attingono all’inconscio e ai sogni, manifestando simboli di istinti primordiali. Nonostante molti artisti aderissero a tali teorie e si rivolgessero all’arte simbolica di nativi americani come i Navajos, Pollock non voleva limitarsi a produrre un’arte autonoma americana, riconoscendo che i problemi essenziali della pittura contemporanea erano indipendenti dai personalismi. L’eredità storica europea da cui si sentivano imprigionati dunque, sarebbe stata infranta proprio in virtù delle teorie junghiane che lasciavano aperte infinite possibilità psichiche costantemente connesse con la natura umana collegata al flusso dell’inconscio e che l’artista avrebbe proiettato sulla tela con l’immediatezza intuitiva di un bambino.

Con ‘Mural’, Pollock pone le basi di un universalismo pittorico che paradossalmente e proprio per questo diverrà il mito della solitudine e dell’incontro tutto personale con la propria profonda identità. Kirk Varnedoe dirà più tardi: “Era il gennaio di un grigio inverno tormentato dalla guerra, e in nessun altro luogo nasceva qualcosa di paragonabile per originalità e forza espressiva”.

“In quegli anni la protesta che accompagnava le nuove frontiere artistiche vide l’inizio del processo disintegrante anche nelle furiose pennellate di Jackson Pollock che, insieme a Parker e Kerouac, “rappresentava l’esplosione di una nuova controcultura postbellica apparentemente fondata sul sudore, immediatezza e istinto, più che su gavetta, abilità e sfiancante esercizio”. (61)

Come per gli altri due, anche Pollock si poneva in una condizione di libertà e svincolamento da qualsiasi oppressione esterna che gli permetteva di entrare nel flusso e affondare realmente nella gestualità pittorica con un impeto di frenetica estasi a cui fanno eco le lunghe, torrenziali e complesse frasi di Kerouac e l’esplosione delle note del sassofono di Parker.

Pollock rappresentò l’esito finale della pittura moderna cominciata con l’automatismo del surrealismo portando alle estreme conseguenze i presupposti in cui la libertà espressiva e il sentimento del presente fanno parte del culto di questa estrema soggettività e del suo rapporto con la vita. Secondo Carmine Benincasa, Pollock rappresentava “l’esperienza inquieta e turbolenta della cultura post-cubista” che in America “recuperava le antiche radici europee e la visionaria apertura apocalittica” attraverso una nuova e scatenata energia che giunse al proprio linguaggio attraverso “le radici dell’interpretazione del mondo, cioè il mito e i simboli…” (C.Benincasa,1994)

Dopo aver affrontato le tematiche pittoriche di Picasso, che all’inizio del secolo aveva distrutto le strutture formali della prospettiva e della descrizione, Jackson Pollock adottò presto le tecniche provenienti dal surrealismo come la scrittura automatica, ed accolse con piacere il fatto che a causa della guerra in Europa alcuni anziani maestri del vecchio continente si trovassero in quel momento in America, poiché portavano con loro una comprensione dei problemi della pittura moderna; inoltre era particolarmente colpito dal loro concetto secondo il quale la fonte dell’espressione artistica è l’inconscio. In un’intervista dichiarò: “Credo che ognuno di noi sia influenzato da Freud. Io sono junghiano da un pezzo…”

Nel suo periodo di analisi junghiana Pollock rivisitò l’arcaico e le culture primitive, sviluppando metafore simboliche sulla tragica condizione dell’uomo moderno generando un nuovo spirito di rivolta e di negazione della realtà. Insieme con gli altri compagni d’arte si consideravano moderni creatori di miti, sopravvissuti all’olocausto e senza nessun programma preciso. I loro stili informali erano svariati e si rifacevano tutti a una purezza che potesse tenere lontano il ricordo della guerra e il senso di fallimento dovuto alla crisi economica, alla nascita dei regimi totalitari, alle ingiustizie sociali, ai conflitti razziali e all’orrore dell’atomica. Secondo Barnett Newman, la realtà evocata da questi artisti e la natura delle loro immagini trae vita dal mondo emozionale e fantastico, e pertanto non assomigliano a nulla di conosciuto, anzi sono e restano intangibili, prive di realtà fisica, cioè fenomeni psichici. Newman considerava Pollock un rivoluzionario in un momento storico senza speranze; così “il risveglio ebbe il fervore di una rivelazione”. Si ripartiva da zero come se la pittura non fosse mai esistita prima.

Con questa generazione di artisti americani la pittura divenne uno spazio in cui si era liberi di fare qualunque cosa, di esprimersi al di fuori di schemi prestabiliti, non c’era niente da perdere, non c’erano più orizzonti né sentieri da percorrere, la dimensione che si veniva caratterizzando in questo modo non era più spaziale come in passato, ma psicologica. Secondo Allan Kaprow, l’espressione pittorica di Pollock procurava un piacere molto forte perchè permetteva di partecipare al delirio e alla riduzione delle facoltà razionali dell’Io che finalmente si perde. In una società dove tutto è progettato, un’azione non progettata era rimasta l’ultima possibilità in cui ricercare un nutrimento non formalizzato per l’anima.

Il gesto come “immediatezza” di Pollock, la musica improvvisata di Parker e la “catena ininterrotta di pensiero” di Kerouac, formavano un assioma culturale che consentiva di eliminare le associazioni limitate con le quali la società si identifica mantenendo occultato l’aspetto più genuino dell’esistenza.

In un’intervista del 1950 Pollock sottolineava: “Mi pare che il pittore moderno non abbia la possibilità di esprimere il nostro tempo, cioè il tempo degli aereoplani, della radio e della bomba, nelle antiche forme che erano del Rinascimento o di altre culture ormai tramontate. Ogni epoca deve poter trovare le proprie tecniche”… “i pittori oggi non sono più obbligati a cercare un soggetto al di fuori di se stessi…”

Furono soprattutto le teorie di Freud a stimolare inizialmente i dadaisti e poi i surrealisti a portarsi fuori dalla realtà conosciuta del mondo diurno in vista di mete anche utopistiche a cui fare ricorso per non soccombere al soffocante mondo del reale. Fu infatti la dimensione onirica surreale e l’automatismo a prevalere nel tentativo di traghettarsi verso il trascendente.

Come un libero vagabondare, il tempo senza tempo è la condizione preliminare di ogni opera d’arte moderna, soprattutto per gli artisti visionari come il francese Andrè Masson, che ancor prima di frequentare Breton aveva già anticipato i dettami fondamentali del manifesto surrealista con i suoi esperimenti di automatismo libero da qualsiasi intenzione sistematizzata. L’assenza di un progetto estetico-pittorico portò ad una rottura definitiva dell’ordine linguistico. Lo scopo era quello di andare oltre la logica dei propri sensi, rivelando così non un’apparenza ma l’essenza stessa della natura. Dice Masson: “Sapevo cosa si doveva fare: il vuoto dentro di me, essere completamente disponibile, lontano da ogni premeditazione. Non riflettevo su quello che facevo”.

Fu Jung a sostenere che la sospensione dell’intelletto razionale consente di risparmiare quell’energia che ricaricata produce un aumento di disponibilità creativa. Tale sospensione dell’intelletto razionale è parte integrante della disciplina zen praticata da monaci e artisti al fine di predisporsi alla compiutezza di un’azione che tendendo alla trascendenza rimane comunque senza uno scopo utilitaristico, senza un’intenzionalità definita. Nella pittura calligrafica dello Zen, l’artista esprime l’illuminazione di un istante e non ha tempo pertanto di elaborare la pennellata. Così Masson predilige la virtù del cambiamento, secondo lui “agire non è conservare, agire è avere la forza di contraddirsi, di muoversi, di essere il grande viaggiatore della parabola taoista, il grande viaggiatore che non sa dove va”.

Masson anticipò i surrealisti e la gestualità di Pollock proprio attraverso questo modo di porsi che è tipico dello Zen, cioè dell’azione subitanea in stato contemplativo.

“La pittura Zen sembrerebbe essere stata creata, al pari della religione stessa, da pensatori antiaccademici della tarda dinastia T’ang”. I monaci dissidenti rifiutavano gli stili accademici e amavano “farsi beffe dei loro colleghi di tendenze conservatrici”. Tale scuola di pittura è stata paragonata all’occidentale e moderna scuola dell’espressionismo astratto e ricevette il nome di “casta degli sfrenati”. Il pittore zen si può dedicare a calligrafie, ritratti o paesaggi; egli era un uomo che “per vent’anni si dedica allo studio della tecnica, e quindi si getta in balia dell’ispirazione”. (62)

La poetica del gesto, deciso e senza ripensamenti, divenne la chiave per elaborare ed eventualmente cancellare ogni precedente nozione della realtà. Si trovò nell’influenza più o meno consapevole dello Zen la matrice antica di questa necessità di proiettare se stessi nell’opera d’arte dissolvendo una tensione, muovendo da “un’azione non progettata.

L’arte informale pertanto diventò arte di incomunicabilità e ciò che la giustificava era l’operatività dell’artista di fare arte. Grazie allo Zen quest’arte si arricchì di contenuti che andavano al di là del linguaggio, liberandosi da vincoli estetici, rendendosi sofisticata e svuotandosi del complicato e del minuzioso. A quel punto tutti gli artisti che si avvicendarono sulla scena delle opposte rive dell’oceano, parlarono di “purificazione”, di “atto assoluto” o “autosufficiente”, di “non pittorico”, di “non sensuale”, “spoglio”, “senza tempo”, “senza stile” ecc.

L’indignato Alan Watts comunque sentenzierà: “Alcuni artisti possono ribattere che non vogliono che le loro opere siano diverse dall’universo nel suo insieme, ma se è veramente così non dovrebbero allora presentarle in gallerie d’arte o alle mostre. Soprattutto non dovrebbero né firmarle né venderle: è immorale quanto vendere la luna o firmare con il proprio nome una montagna (…) Oggi ci sono artisti occidentali che usano apertamente lo Zen per giustificare l’uso indiscriminato di tutto quanto passa loro per la testa: tele in bianco, musica completamente silenziosa, brandelli di carta stracciati lasciati cadere su una tavola e incollati dove cadono…” (63)

Negli anni Sessanta Jean Dubuffett arrivò a considerare arte anche quella degli schizofrenici in quanto forme espressive emancipate dalla cultura.

Poichè in apparenza lo Zen, come la natura, non ha regole precise da presentarci, ognuno si sentiva in diritto di “scherzare” con le forme dell’arte senza paura di sbagliare o commettere errori intellettuali e filosofici, ma in questo modo lo Zen era usato come una sorta di ostentazione da bohemien.

Watts ci allerta sul fatto che gli “accidenti controllati” usati dai geniali artisti cinesi e giapponesi, non risultano belli in modo convenzionale, ma è solo grazie alla magica casualità che ritroviamo in natura che essi rappresentano l’essenza universale di tutte le cose. Ma per giungere a questi risultati, è stato detto, il pittore zen è “un uomo che per vent’anni si dedica allo studio della tecnica, e quindi si getta in balìa dell’ispirazione” penetrando oltre le percezioni della mente razionale e dei sensi, rivelando così, non già l’apparenza, ma la vera essenza della natura.

Fonte : “C’era una volta un ribelle” (R.Santilli, ed. Anicia 2019)

C’era una volta un ribelle

Influenzati dalle ricerche di Freud e Jung, e dalla cerchia di quegli scrittori che avevano spostato la loro attenzione dalla società all’indagine sulla natura della coscienza, gli artisti del secondo dopoguerra americano ed europeo si resero conto ben presto che per affrontare le loro incertezze e frustrazioni, i loro riferimenti filosofici e artistici dovevano addensarsi su quegli stessi presupposti psichici che più tardi li avrebbero introdotti alla conoscenza del pensiero orientale.
La loro utopica ribellione aprì la strada a nuove possibilità, nuove idee, nuove forme di vita e nuovi modelli di pensiero, i valori dei quali, passando attraverso la controcultura si riscontrano nell’attuale pensiero diffuso.
Viene ricostruita così la sintesi di quella forma di ribellione pacifica pilotata dalla poetica di Ginsberg e Kerouac, passando dal Jazz e
dall’avanguardia artistica del Novecento fino a coinvolgere il movimento giovanile degli anni Sessanta e Settanta, il Rock in tutte le sue
forme e includendovi la ricerca spirituale che passò soprattutto dallo Zen. Questi uomini, questi artisti, stanchi del contrasto delle opinioni,
facevano pertanto riferimento a ogni forma di cultura alternativa pur di investigare, stimolare la coscienza, gettare uno sguardo in profondità e fare personalmente l’esperienza di come stiano realmente le cose per liberarsi dai vincoli del mondo conosciuto, dal dolore e dalla frustrazione e ritrovare il significato della vita.

“Quando conobbi Allen Ginsberg nel 1979 al Festival dei Poeti a Castelporziano con lui c’erano Gregory Corso, Peter Orlowsky, Lawrence Ferlinghetti e il vecchio William Borroughs. Mancava solo Jack Kerouac che era morto dieci anni prima.

In quell’occasione Ginsberg mi scrisse una poesia su un foglio di carta rimediato; la poesia cominciava con “Blue moon…” e non ricordo di più; ricordo invece che mi fu sottratta quasi per errore dalla ragazza che mi accompagnava e che non sapeva neanche chi fosse Allen Ginsberg”.

“Qualcuno ha detto che il movimento giovanile degli anni Sessanta ha cambiato la cultura umana. Le premesse di questa nuova generazione erano state poste con la cultura underground a partire dalla chiara concezione che il sistema di vita occidentale americano aveva fallito e che per risensibilizzare la percezione e restituire alla coscienza una nuova visione liberata dagli stereotipi c’era bisogno di un antidoto”.

(“C’era una volta un ribelle”, Raffaele Santilli, ed. Anicia, Roma, 2019, pag. 70)

“La scena underground e della controcultura stava tramontando, ma i temi della frustrazione e del dolore, così denunciati dai giovani degli anni Sessanta e Settanta sono ancora presenti oggi, ma quella stagione ha portato con sé i segni di una nuova consapevolezza che oggi apparentemente sembrerebbe andata perduta. – In quegli stessi anni si fece sempre più chiaro che quei temi della frustrazione e del dolore, tanto sentiti dai giovani e tanto temuti dagli anziani, sono stati da sempre i temi di base della dottrina religiosa buddhista”.

(Ibid. pag. 110)

“Il ribelle di oggi non può che essere colui che realizza in sé stesso la saggezza. La vera eredità della cultura della ribellione è, oggi più che mai, una rivoluzione totale che include in maniera creativa e costruttiva la saggezza del proprio fallimento come un pieno successo, nell’aprirsi a nuovi mondi di senso”. (pag. 150)


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