Il semplice fatto di essere nati non esaurisce il vero significato della vita. Nascere nel mondo è detto “entrare in scena” in un mondo già esistente, formato da comunità di uomini che comunicano tra loro e che nel tempo hanno stabilito un codice di comunicazione e comportamento. Sostanzialmente la nascita e la crescita iniziano e finiscono in questo mondo di comunicazioni e comportamenti stabiliti e socialmente accettati come consuetudini per comodità ma che rimangono nell’ambito delle convenzioni. È questo il modo di esistere degli esseri umani che, come attori inconsci, sono comparsi nella scena della vita. Huxley parlava di “nozioni di seconda mano” per dire quanto l’uomo resti condizionato non dalla vera cultura ma dai simboli di una cultura che mantiene gli individui entro precisi confini stabiliti che producono slogan e idee già fatte sulla natura delle cose. In questo modo il pregiudizio si sovrappone automaticamente all’’esperienza immediata compromettendo la possibilità di sviluppare la propria pura e personale ricettività, tradendo le proprie potenzialità fino a costruirsi un falso “Io” per adattarsi a false realtà. Per un Io così separato, diceva Jung, gli dei e i demoni non sono affatto scomparsi, semplicemente hanno assunto nuovi nomi, e io dico che uno di questi nomi può essere “epidemia”, quel contagio psichico che impedisce di vedere l’unità dell’esistenza e riconoscere, non i nostri bisogni ma i bisogni dell’anima; solo una forma di esistenza in cui trova posto la nostra anima ancestrale acquisisce senso e pienezza, altrimenti si è destinati e confinati nelle allucinazioni prodotte dalla tremenda paura della solitudine, una solitudine che non può essere alleviata in nessun modo.

Liquidando il problema dell’anima la si perde, perché non l’abbiamo aiutata, ma sostituita con una spiegazione, con una teoria. Ignorare queste cose significa vivere in totale contraddizione col proprio sistema naturale. La nostra attuale schizofrenia è l’eredità di un’epoca che ha perso il controllo ed è scivolato negli stati deliranti della psiche lasciando emergere tumultuose forze sotterranee prodotte dalla dissacrazione totale, perdendo qualcosa di fondamentale che gli individui stessi non hanno mai capito veramente. L’uomo si è isolato dalla natura, si è alienato da essa nel tentativo di controllarla e sfruttarla, e avendo perso la sua partecipazione emotiva agli eventi naturali è rimasto isolato nel cosmo in balia di sé stesso, nemico di sé stesso, inconscio di sé stesso, creatore di devastazioni ed epidemie. Eppure questa pandemia che ci ha costretti all’isolamento potrebbe averci suggerito qualcosa circa la relatività del tempo estraniandoci da quelle ordinarie funzioni sociali che sono le contingenze a cui siamo costretti a credere rimanendone prigionieri.

Soprattutto la “normalità” dell’uomo moderno che mercifica anche i grandi insegnamenti dell’Oriente, è di fatto fondata sulla repressione delle forme della trascendenza, soffocata dalla “globalizzazione” che ha cancellato l’intima connessione tra tutte le cose, quell’interconnessione che è la concezione centrale del buddhismo. Tutte le più grandi e importanti idee filosofiche e religiose non prendono vita dalla mente “normale” che è contingenziale e razionale, la cosiddetta “coscienza” che forma il “processo di adattamento momentaneo” che dura solo l’arco di una vita.

Ecco allora il perché dello Zen: per ritrovare i valori morali e spirituali eterni che difettano alla coscienza; per riconoscere e celebrare la vita oltre noi, per ritrovare la casa dell’anima, per tornare psicologicamente ad essere come bambini, per recuperare l’energia emotiva che ci è stata rubata dall’illusione ipnotica e stabilire un nuovo e più reale contatto con la natura esterna e quella interna celebrandole come Fondamento di ogni singola esistenza. La ricerca del Fondamento non è spaziale ma intuizione viva prodotta dall’attenzione rivolta all’inconscio che genera la consapevolezza di un nuovo punto di vista.

Ancora una volta è il singolo individuo che è chiamato a iniziare l’opera di cambiamento. Lo Zen può agire nella nostra vita come barriera contro le dilaganti epidemie che avanzano come psicosi di massa; lo Zen può essere un modo per contrastare queste epidemie che sono soprattutto psichiche; lo Zen è fonte di consapevolezza; attraverso lo Zen riconosciamo le buone abitudini, perché l’igiene stessa è più che mai “mentale”. Buddhismo e Zen presero parte attiva in quella controcultura che a partire dagli anni Cinquanta permise nel tempo l’insorgere di nuove tendenze come la riconsiderazione del nostro rapporto col pianeta, il pacifismo, l’ecologia, le medicine alternative, la cura del corpo e dello spirito e il movimento di liberazione sessuale (Santilli, 2019, p.115) Qualcuno ci ha anche ricordato che già cento anni fa Steiner ammoniva di quanto fosse difficile già allora essere umani, e di quanto fosse indispensabile sviluppare capacità spirituali sempre più forti per non soccombere.

Essere mentalmente silenziosi diventa un compito necessario per spezzare l’abitudine a reagire facendoci sopraffare dal ricordo delle parole ereditate dalla cultura. La coscienza, per essere tale, ha bisogno di silenzio mentale e ricettività pura. La mente non condizionata è dotata di un’intrinseca sapienza che è indipendente dai condizionamenti della cultura essendo ispirata dal silenzio interiore della propria natura. Tale mente riconosce che i “giochi” della vita quotidiana non sono altro che giochi. Il saggio e il mistico sanno distinguere la natura del gioco, sanno riconoscere intimamente la configurazione del terreno di gioco in modo da approcciarvisi in maniere adeguate. Al contrario, il sapere astratto ereditato dalla cultura ufficiale ha imposto una serie di programmi che non permettono le distinzioni e la comprensione del meccanismo del gioco e impedisce alla coscienza di superare i limiti e le categorie del “gioco”.

Lo Zen non crea cose nuove, ma aiuta a scoprire quelle autentiche già esistenti. La mente dello Zen è infinitamente più estesa della mente “normale” creata dalle parole. Lo Zen ci induce a prendere coscienza della commedia e del dramma di cui siamo prigionieri e attori, cioè di noi stessi e di ciò che di essenziale ed effettivo esiste, divenire consci cioè, degli strumenti della coscienza come frammento di un processo creativo in attività.

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